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Lampedusa,
Diario di bordo
- Giorno 2

Il racconto di Giulia Cicoli
Co-fondatrice di Still I Rise

Giorno 2: Nascere e morire

Ci sono luoghi dove non si nasce e non si muore. Ma solo si arriva. O si scompare. Lampedusa è uno di questi luoghi. Lo capiamo ogni giorno un po’ di più.

Ieri sera parlavamo con Andrea, il signore del cane — sì, quello che aveva perso e poi ritrovato, e di cui ti ho parlato ieri . Gli abbiamo fatto una domanda quasi banale, di rito: “Signor Andrea, lei è nato qui?” Ci sembrava un modo naturale per capire se fosse lampedusano o se, come tante persone incontrate qui, ci fosse arrivato più tardi nella vita. “Sono lampedusano,” ci ha detto. “Ma non sono nato qui. Come quasi tutti i lampedusani.”
Poi ci ha spiegato il paradosso.

A Lampedusa non si nasce. Non ci sono ostetriche, né un ospedale. Solo un poliambulatorio. Quando una donna rimane incinta, se la gravidanza procede bene, al settimo mese deve volare a Palermo o Agrigento, affittare una casa a proprie spese e restare lì fino al parto. Solo dopo qualche settimana può tornare sull’isola con il neonato.

I lampedusani non nascono a Lampedusa. Eppure, gli unici bambini che oggi nascono davvero qui sono quelli delle donne migranti: partoriscono al porto, in ambulanza, o appena sbarcate.

E penso a quanto valore diamo tutti noi, culturalmente, al luogo di nascita. Ai miei amici milanesi fieri del loro codice fiscale che finisce in 205F. Alle diatribe infinite tra Pisa e Livorno. Ai bambini che ho visto nascere a Samos, in Grecia, quando vivevo accanto a un campo profughi. Anche lì, molte partorienti su brandine d’emergenza, con ostetriche che urlavano in una lingua sconosciuta.

Questo paradosso spiega bene una cosa: non si può parlare dei diritti dei migranti senza riconoscere che qui, a Lampedusa come a Samos, i diritti fondamentali e le risorse mancano per tutti.

Per chi arriva e per chi resta. Per una madre che parte e per una che approda.

Ma se nascere qui è complicato, morire invece è molto più facile.

La morte, su quest’isola, è una presenza costante. Ancora più che a Samos. il viaggio dalla Tunisia o dalla Libia è lungo e pericoloso, anche perché Malta ignora le chiamate di soccorso, e Lampedusa diventa l’unico approdo possibile.

Ma morte non è solo una costante, è anche l’unico racconto che l’isola sembra meritare. Dell’isola si parla solo quando la tragedia esplode: naufragi con decine di vittime, o hotspot sovraffollati. Quest’ultimo oggi è meno visibile, perché mediamente le persone vengono trasferite in Sicilia entro 24 ore.

Ma se l’emergenza passa, la morte no. Quella resta. Non solo nei numeri, ma nei cimiteri, nei racconti che nessuno raccoglie, ma che l’isola non dimentica. Ed è in questo limbo, in questo spazio di narrazione mancante che una delle prime domande che abbiamo fatto alle operatrici umanitarie è stata: “Quando muore qualcuno, cosa succede?”.

La risposta ci ha portate al cimitero. Alcuni migranti sono sepolti lì. Molte tombe non hanno nome, né provenienza. Ma qualcuno ha avuto la forza di prendersene cura, piccoli gesti di dignità del custode del cimitero, ma anche di lampedusane e lampedusani che credono che chiunque meriti un luogo in cui essere pianto e ricordato. Ma dal 2010 non c’è più spazio per seppellirli qui: ora una cella frigorifera custodisce i corpi, in attesa della Sicilia.

Camminando tra quelle pietre mi fermo davanti a una tomba: una ragazza nigeriana. Una data, e una frase incisa: “Per quattro interminabili giorni la Pinar rimase a 25 miglia a sud di Lampedusa, bloccata da un assurdo braccio di ferro tra il governo maltese e quello italiano. Solo il 20 aprile fu autorizzato l’ingresso nelle acque territoriali italiane.”

Quella frase mi colpisce come un pugno allo stomaco. Mi riporta a un altro cimitero, cinque anni fa, a Samos. Al bambino afghano che ho aiutato a seppellire. Aveva sei anni. La sua barca si era schiantata sugli scogli a mezzanotte. La chiamata di soccorso era partita subito. Ma la guardia costiera arrivò sette ore dopo. Troppo tardi.

Il suo corpo rimase tre settimane in una cella frigorifera. Poi, con altri dell’isola, ci siamo mobilitati per offrirgli una sepoltura degna. In accordo con il padre, sulla tomba abbiamo scritto: “Non è stato il mare. Ma le politiche di paura e razzismo.”

Non volevamo solo ricordare. Volevamo dire la verità.

Lampedusa è un’isola dove non si nasce. Ma dove si muore troppo facilmente. E nessuna politica dovrebbe permettere che sia più facile morire che venire al mondo.

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