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Lampedusa,
Diario di bordo
- Giorno 3

Il racconto di Giulia Cicoli
Co-fondatrice di Still I Rise

Giorno 3: A venti passi dalla spiaggia

Negli ultimi giorni a Lampedusa sono arrivati diversi navi. Le persone intercettate in mare dalla Guardia Costiera vengono fatte sbarcare al molo.

Anche qui, come a Samos, in piena vista. Dalla fine di via Roma – la via principale del paese, che la sera si riempie di bancarelle e turisti – si scorge il punto esatto in cui la vita e la sopravvivenza si incontrano. Il molo è dichiarato zona militare.

Un’associazione locale viene avvisata ad ogni sbarco. Hanno il permesso – concesso, non garantito – di esserci. Di offrire tè caldo e ciabatte a chi ha perso le scarpe, o parte di sé, durante la traversata. In questo spazio fragile, la società civile tenta di entrare. Possiamo dare disponibilità in fasce orarie scelte. Se c’è uno sbarco in quel periodo, ci chiamano. Nessuna certezza. Solo presenza.

È lo stesso ritmo che conoscevo a Samos, quando con Nicolò aspettavamo la chiamata, giorno e notte. Era il 2017. Eravamo volontari in una terra sospesa. Anche lì, dividere i turni, passare il telefono, aspettare. Anche lì, fare di tutto per offrire un momento di dignità.

Abbiamo scelto il turno dalle 6 alle 14. E appena metto giù il telefono, mi investe un’ondata di ricordi. Flashback. Gente stremata tenuta a terra, senza luce, senza potersi cambiare. Noi fuori dalla “gabbia” – la chiamavano così – con sacchetti pieni di vestiti, aspettando ore. Quando ci lasciavano entrare, la polizia ci stava addosso, ci urlava: “10 minuti, non di più!” Per 100 persone. E noi, sempre, cercavamo un modo per rendere quei dieci minuti un gesto umano. Due maglioni tra cui scegliere. Uno spazio minimo di dignità.

Avevo sepolto quei giorni. Ma Lampedusa li ha riportati a galla. Perché queste due isole, separate da un mare, si assomigliano. Frontiere che respirano allo stesso modo.
Alle 7 arriva la chiamata. Una barca, 73 persone. Ci vengono a prendere altri volontari. Al molo ci sono anche due suore e un prete. Presenze silenziose, costanti.

Quando arriviamo, le persone sono già lì. Un’ambulanza è appena partita – ha portato via una donna. Non so niente di lei. Gli altri sono tutti uomini, per lo più iraniani e curdi. Sembrano stabili, si muovono piano. E, come sempre, la prima cosa che ci chiedono è il Wi-Fi. Vogliono chiamare casa. Dire: “Sono vivo.”

E penso: se potessimo fotografare, se fosse permesso filmare, quante voci direbbero: “Eh, ma hanno il cellulare… non stanno così male.” Ma io penso che in quel gesto – chiedere la connessione – c’è tutta la nostra umanità. Quando la morte sfiora, la prima cosa che vuoi è far sapere a chi ami che sei ancora qui, che stai bene.
Dal 2023, la Croce Rossa gestisce gli sbarchi. Dicono che sono più rapidi, più organizzati. Le persone vengono trasferite all’hotspot entro poco tempo. In media, restano solo 24 ore sull’isola. Per chi, come noi, ha vissuto anni a vedere esseri umani bloccati in maniera indefinita su un’isola come Samos, sembra quasi un sogno.

Ma una domanda continua a bruciarmi in testa: come fai in 24 ore a fare tutto? Spiegare i diritti, le possibilità di richiesta asilo, fare screening medico e psicologico, capire le vulnerabilità, cercare di combattere i trafficanti, registrare identità? Non si può. E questa è la crepa che voglio continuare a guardare da vicino, che vogliamo investigare.

Al molo, oltre alla Guardia Costiera e alla società civile , opera anche Frontex. Agenzia europea teoricamente a supporto delle autorità locali, Il loro ruolo è di supportare i controlli alla frontiera, e la frontiera — lo impari presto — non è mai neutra. Appena i migranti scendono dalla barca, non c’è un volto, non c’è un nome: c’è un dispositivo di controllo che li circonda, li osserva e li incasella. Non si presentano, non spiegano chi sono o perché sono lì, fanno solo domande, le cui risposte non si sa bene dove andranno . È una presenza che pesa, una modalità che resta ambigua, difficile – ad oggi – da decifrare per chi assiste e per chi arriva. In quei primi minuti non viene spiegato a nessuno quali diritti abbiano, né cosa stia accadendo loro: ogni azione avviene senza informativa, senza consenso. È un silenzio che pesa e che trasforma il confine in una terra di nessuno, dove i diritti – come quello della difesa – restano sospesi.

Mentre il primo gruppo attende il trasferimento, un’altra barca arriva. Quasi tutti somali. Donne, bambini. In 30 minuti sono già sul pulmino verso l’hotspot.

Alle 10:30 finiamo il nostro turno. Salutiamo le suore. Ci sediamo a bere un caffè appena fuori dal molo. Davanti a noi, una spiaggia da cartolina. Bagnanti sdraiati al sole, ignari di ciò che accade a venti passi da loro.

Questa dualità – paradiso e disperazione – è stata la ferita più difficile da gestire nei primi mesi a Samos. Ma poi è diventata una forza. La bellezza di quest’isola, come quella, ti tiene in vita. Ti consola. Ti ricorda perché sei lì.

Perché finché ci sarà chi arriva dal mare, ci deve essere anche chi resta a guardare. A raccontare. A testimoniare.

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